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E’morta come uno dei tanti che erano oggetto del suo amore, nel silenzio che avvolge la solennità della morte, mentre lavorava fino all’ultimo respiro concessole dalla Provvidenza, accanto ai suoi poveri. Il calvario finale lo conosciamo tutti, quell’andiri­vieni dall’ospedale, la convalescenza, il viaggio a Roma per incontrare il Papa.

Ma questa vecchietta fragilissima di 87 anni, non si è fatta trovare dalla morte intenta a sferruzzare sbirciando la televisio­ne per ammazzare, come si dice, il tempo che non passa mai. Stava sui rovi fino all’ultimo, accanto all’umanità dolente dei poveri, a condividere ansie e sofferenze, a prestare soccorso e confortare mentre il silenzio gli era unico compagno. Un silenzio interrotto soltanto dal lamento dei moribondi e degli ammalati. Un silenzio che era preghiera e stupore davanti al mistero del dolore e della solitudine dei poveri. Un silenzio che Madre Teresa interrompeva solo quando glielo chiedevano i poveri, quando si trattava di aiutarli usando la forza della voce, talvolta del grido. A Stoccolma aveva dovuto interrompere il silenzio e tuffarsi nel ‘clamore’ dei riti ufficiali che accompagnano l’attribuzione del Premio Nobel. Ma sapeva che quello era un palcoscenico da cui poter affermare le ragioni di quelli che non possono gridare perché non hanno voce e nel mondo distratto dei sazi non contano nulla. E lo fece. Ma solo per un giorno, poi tornò a tuffarsi nella solitudine ammantata di silenzio dei poveri.

In una società del clamore, a volte dell’urlo incomposto per darsi ragione e farsi spazio per forza, il messaggio di Teresa è avvolto in un apparente non senso, appare privo di significato. La società delle immagini e dei messaggi mass-mediali esige il gesto gridato, l’appariscenza, il teatro della parola magniloquente. La società del grido, davanti alla morte di Teresa di Calcutta, non poteva fare altro quindi che appropriarsi di lei come ci si appropria di un mito, rivestirla delle sue ragioni, acclamarla Con le sue liturgie pagane, circondarla di applausi e di clamore, anticiparne la beatificazione col crisma dell’emozione pubblica e generalizzata. La bara su un affusto di cannone, le guardie che la circondano, gli onori militari, la teoria lunghissima degli omaggi floreali dei potenti della terra, hanno sottratto Madre Teresa al suo silenzio, l’hanno espropriata ai suoi poveri per offrirla all’omaggio dei potenti. Cosa avrebbe pensato Madre Teresa di tutto ciò? Lei che aveva cantato per tutta la vita il Magnificat dei “potenti deposti dalle loro sedi e degli umili esaltati’? Ai suoi funerali c’erano tutti, giovani e vecchi, donne e bambi­ni, militari e politici, cristiani e induisti e poi Capi di Stato e di Governo, rappresentanze diplomatiche e politiche. Mancava solo una categoria di persone che era stata sempre al centro della sua vita e della sua passione: quella dei poveri di Calcutta e del mondo che l’ufficialità aveva deliberatamente tenuto fuori dalla porta, quasi a perpetuare la loro povertà col marchio della esclusione. Sono state queste, ai funerali di Madre Teresa, le credenziali del mondo in cui viviamo, della società che è cresciuta attorno a noi.

Quella società che avendo smarrito il mistero della Povertà è sempre più occupata a rimuoverlo dalla sua storia. Parlo di miste­ro riferendomi a questa nostra naturale condizione di fragilità, di esposizione all’errore e al male, a quella fondamentale indi­genza che accompagna la nostra vita e spesso rende inutile il nostro conto in banca, il nostro patrimonio, il nostro accanimento nel risparmio e nell’accumulazione di beni. C’è una povertà come destino che accompagna la nostra condizione umana e da cui ci liberiamo soltanto riempiendo il vuoto che è in noi, recuperando il senso della nostra umanità e le ragioni della nostra vita. E c’è una povertà fatta di sofferenza, di mancanza del necessario, di solitudine, di frustrazione ed emarginazione. Madre Teresa, partendo dalla scoperta della prima, arrivò a percepire la seconda povertà come occasione che la Provvidenza le offriva per dedicarvi tutta la vita con un impegno impareggiabile. Intuì che la società del benessere fondata sul consumismo può attenuare la povertà materiale dei beni, ma difficilmente incide sulla povertà della nostra condizione umana. Anzi, spesso 1′ aggra­va, creando alienazione, insoddisfazione, rifiuto. Ora siamo tutti ad invocare dalla chiesa il gesto solenne della canonizzazione, a conferma della corale acclamazione che parte da ogni angolo del pianeta. Talvolta più per un bisogno di conferma dei nostri sentimenti che per un’intima esigenza di fede. La chiesa ci risponde col silenzio della sua saggezza. Sa che i santi non sono soltanto quelli che essa proclama sotto le volte della basilica di San Pietro, ma quanti muoiono in pace con Dio. Sa che i Santi non li crea l’emozione popolare, per guanto diffusa e corale, ma il segno dello Spirito. Madre Teresa è già Santa e forse la chiesa non avrà neanche bisogno di attendere eventi straordinari come i miracoli per proclamarla tale, perchè quello che essa ha fatto è già miracolo. Miracolo dell’Amore che si fa storia attraverso i profeti che ogni tanto Dio manda sulla terra.

Emanuele Giudice

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