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Non ho mai incontrato Emanuele Giudice. E conosco solo una parte di ciò che ha scritto. Non sono dunque la persona più adatta per parlare di lui. Eppure, leggendo questa sua ultima raccolta, “Oltre la rete di ragno che m’invento”, credo di aver intuito i tratti singolari del suo poetare. Non mi soffermerò né sul suo stile, né sui temi che a lui stavano a cuore, come l’attenzione al sociale, il suo rapporto con Dio, gli affetti familiari. Mi limiterò a sottolineare un aspetto della sua poesia, ovvero l’essere, la sua, una poesia di pensiero. E il pensiero poetico di Emanuele Giudice è un pensiero onesto, un pensiero appassionato, un pensiero costruttivo.

È un pensiero onesto, perché la poesia di Emanuele, nel suo continuo interrogarsi, non cede mai all’auto-compiacimento. Lo sforzo di indagare il reale oltre “grovigli di immagini e voci” è costante: “Vorrei sapere/ cosa si nasconde/ oltre la luce e il segno,/ oltre l’uguale e il diverso/ al di là dell’apparente traguardo/ che m’illude” (VOLTIAMO PAGINA). Naturalmente, è anche uno sforzo di conoscere se stesso: “vorrei sapere/ qualcosa di me/ di questo mio tacere e sproloquiare/ avari di risposte e di domande” (CRUCIVERBA). E, più in generale, è uno sforzo di conoscere l’umano: “Chi siamo,/ e perché siamo e non siamo/ in questo affastellarsi/ di misteri indecifrabili?” (TRA IL NULLA E IL FOSCO). In questo interrogarsi, il pensiero di Emanuele rimane sempre attento, vigile, perché consapevole dei tranelli che la vita ci presenta e persino di quelli autoindotti, prodotti dalla mente, insidie che il poeta, seppure sensibile al loro fascino, vuole riconoscere e smascherare. Si tratta dei “tentacoli del giorno” (CAMPANE DELLE GRAZIE), dei “fatui desideri” (VOLTIAMO PAGINA), delle vanità, della nostra “affannata presunzione” (CREDEMMO DI ESSERE NOI I PROFETI DEL FUTURO). La consapevolezza di una fitta trama di tranelli è dolorosa, è fonte di inquietudine.

Dolore e inquietudine sono d’altronde parte integrante di un pensiero che, oltre ad essere onesto, è appassionato. Emanuele è catturato dalla vita, in pieno, e nel suo “inquieto filosofare sui perché” (OLTRE QUESTO MIO VIZIO), non rinuncia a nessun sentimento, preso dall’ “ansia di adescare una scintilla” (IERI) e avido di verità, come le colombe “avide/ alla ricerca di semi sparsi/ dal vento provvido” (CAMPANE DELLE GRAZIE). La sua poesia è allora esposta a sgomenti, sobbalzi, fitte intense a causa degli “aculei che ci arpionano” e dell’ “agguato di fameliche ventose” (VOLTIAMO PAGINA). La sua poesia conosce precipizi e vertigini, comprese le vertigini della solitudine: “Anch’io/ soffro le vertigini della solitudine/ e cerco l’altro/ dove non lo trovo” (MA DOVE VAI?). Teme gli “acquitrini” in cui il poeta rischia “il pantano” (RITORNO). Ma poi si apre –e questa è una delle sue note di fondo irrinunciabili- allo stupore e alla meraviglia. Stupore e meraviglia suscitati dalle piccole cose, come la “fragile emozione di una gemma/ che s’apre al sole”, la contesa di due passerotti sul “piccolo davanzale” (LA FRAGILE EMOZIONE DI UNA GEMMA), le “due coccinelle innamorate” che “tremavano strusciandosi/ e bevevano l’attimo/ a piccoli sorsi/ impercettibili./ Sembravano appagarsi dell’esile dono della vita…” (PICCOLI AMORI).

In questo suo aprirsi all’ “esile dono della vita”, il pensiero di Emanuele Giudice non è solo onesto e appassionato, ma diventa anche costruttivo, perché è un pensiero ostinato, che non si rassegna. E, lo abbiamo visto, non esista a ripetere il suo “sì” alla vita. Emanuele dice: “Sono vecchio/ e lo so,/ ma il mio cuore a volte saltella/ qua e là/ come un cerbiatto” (CIRRI DI NUVOLE). Il suo è un pensiero che, consapevole della fragilità connaturata in ognuno, si vuole audace, come la luna “silente e audace” che “riesce a interloquire con l’immenso/ dal piccolo gheriglio di cielo/ in cui s’acquatta” (VOLTIAMO PAGINA), audace come il “volo d’albatri/ pronti a sfidare/ tutte le gamme/ tutte le misure/ degli azzurri” (VOLI). È un pensiero, è una poesia, fatta di risurrezioni e di nuovi risvegli: “E il fiore già si sveglia dall’accidia/ del lungo torpore che lo ingabbia./ E un nuovo inizio/ sembra offrirsi/ alle insidie spavalde della luce…” (LA FRAGILE EMOZIONE DI UNA GEMMA); “Siamo già/ a un altro annuncio della pasqua/ aperta all’attesa di miracoli e doni/ e di nuove sconosciute risurrezioni” (APRILE). Emanuele Giudice non si rassegna, non si sottrae alla vita. Al contrario, si sente parte di un tutto che tutti abbraccia: “e ogni evento/ sento partecipe/ di questo universo/ che mi abbraccia/ e vibra di stupori e pianti” (EFFLUVI). Inevitabile è allora, in questa consapevolezza tutta umana, anche un sentire solidale, che ricerca l’altro, lo interpella, lo vuole vicino, lo sa compagno di un cammino che tutti accomuna: “Vinciamo assieme/ questo muto guardarci/ ed assentire alla paura/ finché una mano si muova/ alla ricerca dell’altra/ per l’esiguo calore in disuso/ da scambiare…” (MA DOVE VAI?).

La poesia di Emanuele Giudice è una poesia che, alimentata da un pensiero lucido, appassionato e costruttivo, non tace il “dubitare”, ma lo trasforma in “dire”. Il dubitare non impedisce infatti il dire, ma lo sollecita, lo genera di continuo, gli conferisce credibilità. Non a caso, forse, “dubitare” e “dire” sono due verbi che troviamo accostati nella prima poesia della raccolta, che dà il titolo al libro: “Oltre la rete di ragno che m’invento”. Ed in questa stessa poesia, Emanuele scrive: “Oltre la rete di ragno che m’invento/ vedo stelle a miliardi”. Il poeta, è vero, può impigliarsi nel reale che gli provoca sofferenza, può impigliarsi nelle sue stesse contraddizioni, nelle insidie che lui stesso s’inventa, ma poi riesce a spingere il suo sguardo oltre, riesce a vedere stelle a miliardi. E vuole raccontare questa sua visione. Così, lo sguardo di Emanuele Giudice ha in sé sia il piccolo che lo smisurato, perché vive di una costante tensione tra effimero ed eterno. Eppure, proprio nel provvisorio, è in grado di scorgere la bellezza, una bellezza non priva di dolore, ma pur sempre segno di quell’infinito a cui il poeta tende incessantemente.

E forse, tra le aspirazioni di Emanuele Giudice, vi era anche quella di assomigliare al mare, al mare così presente nel suo quotidiano e nella sua poesia, al mare che “esibisce una calma che traduce l’eterno/ ed evoca memorie/ di furiose battaglie contro il caos” (MARE IMMOBILE). A mio parere, Emanuele, nelle battaglie della sua vita –una vita che, lo ripeto, io posso soltanto intuire in parte e da lontano- è riuscito a vincere il caos, perché per fortuna non ha mai ceduto alla tentazione di negarlo…
di Raffaela Fazio.

Raffaela Fazio è nata ad Arezzo nel 1971 e vive a Roma, città in cui si è stabilita per lavoro dopo aver vissuto in vari paesi europei dal 1990 al 1999 (Francia, Germania, Inghilterra, Svizzera, Belgio). Laureata in lingue e politiche europee (Grenoble) e specializzata in interpretariato (Ginevra), ha poi conseguito un diploma in scienze religiose ed un master in beni culturali della Chiesa (Roma), interessandosi in particolare all’iconografia cristiana. Dopo una primissima raccolta di poesie giovanili intitolata “Corolle” (1987 – Premio Giuseppe Dessì), ha pubblicato “Per ogni cosa incompiuta” (2008), “A un filo più lento” (2010), “Ogni onda è il mare. Rime da regalare” (2011), “A garante il mistero” (2012), “La boîte” (2013), “L’arte di cadere” (2015).

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