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La mancanza di Emanuele Giudice dalla scena pubblica veniva avvertita già da tempo. I malanni che l’affliggevano e che, da qualche anno, lo tenevano lontano dagli eventi pubblici, non gli impedivano, tuttavia, di scrivere i suoi articoli su questo giornale e di pubblicare altri libri, da aggiungere alla lunga serie di scritti della sua carriera letteraria. Doveva addirittura presentare fra qualche mese, con il sostegno di un’associazione culturale di Vittoria e con l’intervento di una colta docente, l’ultimo suo libro di poesie, dal titolo suggestivo e profetico: “Il sole provvisorio”.

Non ce l’ha fatta. Il libro sarà certamente presentato e costituirà l’ultima perla della sua collana di numerosi libri di poesia, narrativa, drammaturgia poetica e, soprattutto, saggistica; ma lui non vi sarà. O meglio: vi sarà, ma nella dimensione eterna, e per noi misteriosa, di un’anima assorta nella contemplazione di Dio e tuttavia attenta – fa parte delle cose in cui crediamo e speriamo – alle vicende umane dei suoi cari e dei suoi amici. Egli ha avuto in sorte, nella storia genealogica della sua famiglia, il nome di Emanuele, che significa “Dio è con noi” e che preconizza il destino dell’ultimo viaggio per ritrovarsi accanto a Lui. Questo evento liberatorio e felice, che riusciamo ad apprezzare a mala pena con quel granello di fede che tentiamo di conservare, è un fatto certo per Emanuele, “Neli” per i familiari e gli amici. Fin da quando era giovane studente liceale ed universitario, è stato coerente con il suo credo, onesto nella mente e nel cuore. Le sue idee di democratico senza ipocrisie o secondi fini e il suo modo di essere un intellettuale cattolico di punta lo hanno sempre accompagnato nel lavoro, nelle attività di avvocato, di funzionario, di politico, di pubblico amministratore ed anche nella fase della vita che lo ha visto prolifico ed apprezzato poeta e scrittore di romanzi, di saggi (politici, di etica sociale, di ricerca umana e religiosa) e di drammi in versi (soprattutto di natura religiosa: come “Un uomo chiamato Gesù”, “Oratorio per un Bambino”, drammi pluripremiati ed anche rappresentati in pubblico).

Chi scrive lo ha conosciuto nell’estate del 1951, da presidente della Giac nella parrocchia del Sacro Cuore di Vittoria. Era un’associazione di giovani di Azione cattolica, considerata allora, assieme a quella della parrocchia Ecce Homo di Ragusa, la più vivace e frequentata della Diocesi. Poi, al tempo in cui la Diocesi, staccatasi da quella di Siracusa, era retta dal grande vescovo monsignor Francesco Pennisi, divenne presidente della Fuci e, quindi, presidente dell’Azione cattolica diocesana. Nel frattempo, ancora giovanissimo, partecipava alle campagne elettorali per la Democrazia cristiana, sfruttando la sua notevole capacità oratoria, che, col passare degli anni, si affinava sempre più. Bisognava, del resto, affrontare aspre polemiche con il forte Partito comunista vittoriese di allora. A questo proposito, memorabili rimangono i suoi comizi durante i fatti d’Ungheria del 1956. Fu poi segretario politico della Democrazia cristiana, comunale e provinciale; consigliere comunale e, al tempo del centro-sinistra, vice aindaco di Vittoria. Per due volte venne anche eletto presidente della Provincia dal Consiglio provinciale (l’elezione diretta popolare non era allora prevista). Si presentò anche, più di una volta, per essere eletto deputato; ma ciò non avvenne mai. Cosa che egli si aspettava, perché, sebbene segretario provinciale e componente del Consiglio nazionale della Dc, faceva parte del gruppo della sinistra di base di quel partito, della quale, in provincia, era il capo stimato ed indiscusso. Lo spirito di servizio che lo animava gli impediva di rifiutare le candidature che gli amici gli proponevano. Ma dalle destre, anche quelle interne della Dc, gli giungeva sempre l’accusa di essere un “comunista”. Non era egli, infatti, un cristiano, che partecipava, per obbligo morale, alla vita pubblica ed essere lievito nel mondo? Non doveva manifestare la preferenza evangelica verso i “poveri”? La sua cosiddetta “sinistra” – come egli ha ben spiegato nel libro “A sinistra perché credo” – non era una semplice collocazione politica, ma un’autentica attenzione verso gli emarginati, gli immigrati, “i più piccoli”, come si era espresso Gesù.

Nel 1993, a Vittoria, quando egli cominciava ad allontanarsi dalla politica attiva, alcuni ex fucini ed altri cattolici si riunirono – artefice il compianto poeta e letterato don Domenico Anastasi – e fondarono il gruppo Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale), movimento cattolico nazionale succeduto, negli anni ’80, al Movimento laureati di Azione cattolica. Emanuele Giudice, in questi venti anni trascorsi da allora, è stato uno degli elementi portanti del “gruppo”. Inoltre, nel 2003, si spese assieme ad altri, perché nascesse a Ragusa un secondo gruppo Meic. L’esperienza vissuta in questa associazione nazionale, ricca di intellettuali cattolici, sede di fermenti culturali di primo piano (molti aderenti sono docenti universitari), ha dato ad Emanuele, e a quelli che gli siamo stati vicini, l’occasione di crescere ancor più nella fede adulta, già maturata nel corso degli anni, e di rendere più acuto il senso di discernimento etico degli accadimenti politici e sociali. Non sempre ciò è stato considerato positivo per il laicato cattolico; sicché il Meic, nell’ambito nazionale, non ha goduto della simpatia di una parte dell’episcopato (almeno fino a quando non è stato ricevuto da Benedetto XVI in occasione dell’80. anniversario della fondazione del Movimento laureati, poi Meic). Se si leggono gli scritti di Emanuele o si sono ascoltati i suoi interventi nei convegni e nelle riunioni del Meic, si comprende bene che egli non era né bigotto né comunista. Era un intellettuale cattolico che conduceva la propria vita, coltivava il suo patrimonio culturale ed aveva un’idea della solidarietà sociale, conformi agli insegnamenti evangelici.

Antonio Corbino

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